Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le<br />dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non<br />accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un<br />giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa.<br />Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo<br />video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro<br />della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo<br />ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare,<br />specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San<br />Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la<br />Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di<br />contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima<br />sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista<br />interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo Paese si sono suicidate<br />10 mila persone. Sì ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse<br />stata cancellata dalla carta geografica della Nazione».<br /><br />Giannaros ha un passato nelle truppe speciali: mostra le foto delle sue ultime<br />missioni, in mimetica, immerso in un fiume fino alle ginocchia. È come se<br />avesse bisogno di una pausa, vuole raccontare ancora qualcosa della sua<br />famiglia, degli altri due figli, 24 e 28 anni. «Anche il più piccolo è un<br />soldato». Lo dice con un sottinteso chiaro: lui si è salvato. Ma quanti sono i<br />giovani senza speranza? Le statistiche si afflosciano come svuotate di senso al<br />cospetto della forza, della dignità di quest’uomo. «Appena arrivato qui<br />incontravo pazienti che mi chiedevano: ma quanto devo pagare per operarmi qui?<br />Quanto per una lastra? Nulla, rispondevo, questo è un ospedale pubblico. Poi mi<br />sono fatto portare il registro delle prenotazioni e ho capito. La lista<br />d’attesa risultava sempre infinita, ma con una buona “fakelaki” si poteva<br />comodamente saltare la fila». “Fakelaki”, la bustarella. «In cortile ho fatto<br />mettere dei cartelli con una busta sbarrata con una grande x rossa. Significa<br />che qui non si accettano tangenti».<br /><br />Le parole del più atipico dei manager conducono nell’antro della crisi. I<br />ragionamenti sulla sostenibilità del debito lasciano il posto alla scarsità di<br />siringhe, bisturi, persino guanti per la sala operatoria. «Abbiamo sviluppato<br />un network di scambi tra le diverse cliniche. Andiamo avanti anche grazie a<br />donazioni in arrivo dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania». Theodoros<br />accende un’altra sigaretta. Aspira profondamente, poi scarica fumo e una lunga<br />invettiva. Contro le vecchie classi politiche, le dieci famiglie che hanno<br />monopolizzato l’economia del Paese, le «idiote» prescrizioni della «troika», il<br />Fondo monetario, la Bce, la Commissione europea, Angela Merkel. Spera che<br />Alexis Tsipras possa raggiungere qualche risultato, «ma deve avere dietro tutti<br />i partiti, tutta la Grecia. Questo è l’unico modo che abbiamo per<br />sopravvivere». Già, «sopravvivere».<br /><br />«Penso continuamente a quei 10 mila morti che abbiamo seppellito nel silenzio.<br />Penso a mio figlio. E penso che se in Germania un cane muore in malo modo, ecco<br />che il caso finisce sui giornali, se ne dibatte in tv. Ma avete mai sentito<br />parlare dei nostri giovani, dei nostri anziani che si sono suicidati? La guerra<br />civile della Jugoslavia ha fatto 20 mila morti. Quella, però, era una guerra.<br />Che cos’è, invece, questa nostra strage? È una domanda a cui non so rispondere,<br />posso solo dire che in questo momento mi vergogno di essere un europeo». Forse<br />è arrivato il momento di andare. Ma Theodoros ha ancora qualcosa da dire: «In<br />questi anni sono stato corteggiato da tutti i partiti, avrei potuto fare il<br />ministro cento volte. Invece ho sempre voluto restare un uomo libero e mi sono<br />fatto un mare di nemici. Continuo a stare qui, a lavorare per 1.400 euro al<br />mese, cinque volte meno di qualche anno fa. Non posso permettermi la macchina,<br />viaggio in scooter e giro con una pistola. Prima che mio figlio se ne andasse<br />così, mi sentivo anche un privilegiato». ( gsarcina@corriere.it )
